Il fumo saliva
denso arrampicandosi all'aria stagnate, tesseva una ragnatela sinuosa per poi
sparire nell'afa dell'ultimo piano. Il buio attorno, il bruciore intermittente,
tenuto in vita dalle inspirazioni, lunghe e cadenzate di una bocca senza più
parole.
Le tapparelle
abbassate lasciavano sullo spazio tutto intorno le tinte del nero, traforato da
puntini di luce che sfruttando lo spazio, non chiuso a dovere, rendevano la
situazione ancora più irreale.
Se ne stava dietro
uno di quei buchi, le ginocchia strette al petto e la schiena curva, il
tramonto le colpiva l'occhio con cui era intenta ad osservare fuori. Assaporava
ogni boccata di nicotina, trattenendo il respiro un attimo in più del dovuto,
tanto da far lacrimare gli occhi e accelerare i battiti. I tetti sembravano più
rossi del solito, mentre dalla stradina arrivavano le voci della gente. Un
ragazzo parlava al telefono di cose che probabilmente non provava sul serio ma
che sarebbe valse un appuntamento o, nel caso avesse giocato bene le sue carte,
qualcosa di più, la visuale limitata tuttavia non le permetteva di scorgerne la
figura, si limitò ad immaginare l’aspetto.
Due bambine
facevano su e giù per il percorso consentitogli dai genitori, sui pattini a
rotelle, cantavano a squarciagola una canzone famigliare fino allo sfinimento,
parlava di fiori e pesci rossi. Dal balcone di fronte, spalancato, era
possibile vedere la signora preparare la cena, si sentivano i rumori tipici
delle cucine, le posate e i bicchieri sistemati sul tavolo, la teglia che entra
nel forno, il frigo che si apre e verrà chiuso per l'ennesima volta, la si
sente rispondere alla domande del quiz in tivù, spesso sbagliando le risposte,
fa tenerezza e un po' di pena, invidia.
Quante ore sarà
stata nella stessa posizione? A giudicare dalla sensazione di anestesia
generale almeno un paio. L'unica parte che avvertiva del suo corpo era la
testa, ne sentiva il peso, ma non ricadeva su niente. Non aveva più le gambe,
le braccia, un tronco, spariti, ingoiati dal buio. Una volta aveva sentito dire
che quella strana sensazione è una forma di ipnosi. Che ci si concentra così
tanto su un'area specifica del corpo, tanto da dimenticare il resto, lasciarlo
indietro, addirittura furono condotte delle operazioni senza anestesia grazie a
questa tecnica, diceva il servizio. Come avrebbe voluto potesse funzionare
altrettanto bene coi ricordi. Le succedeva anche da bambina, quando dopo aver
finito i compiti prendeva la sediolina, le cuffie e si piazzava davanti al
televisore, guardava i cartoni animati per ore, per ingannare il tempo e la
mancanza, in attesa che tornassero i genitori dai rispettivi luoghi di lavoro.
Quando finivano le trasmissioni, era come svegliarsi da una trance e non
ricordava nulla, oltre a non avvertire le estremità.
Non ricordava se
aveva mangiato o se avesse detto qualcosa o se si fosse spostata per fare pipì
magari, niente. Sorrise serrando la mascella.
Aveva gli occhi
gonfi e striati dal rosso intenso dei capillari sotto sforzo, le doleva
immediatamente dietro i bulbi oculari, un dolore pungente e materiale di cui si
compiacque. Finita la sigaretta, lasciò cadere quello che ne rimaneva accanto
alla cenere, che nel consumarsi aveva prodotto. "Ecco il tuo posto"
sentenziò con fare solenne per poi scoppiare a ridere forte. Una risata lunga,
esagerata, che tuonava nella casa vuota, rimbalzando di parete in parete,
prepotente, sfacciata, inopportuna, falsa, talmente falsa da portarsi dietro
come un fedele amico a quattro zampe, un cappio per la gola, che annoda,
affoga, agogna fino a farti tossire, forte, forte, il viso paonazzo e la saliva
immobile a toglierti la salvezza di un respiro che in realtà si trasforma in un
rigurgito. Il vomito amico. Di vecchia data.
Provava pena per
se stessa, mucchio d'ossa abbandonato su un pavimento costoso imbrattato da
mozziconi e rigurgiti di se, ma come un oggetto non può separarsi dalla propria
ombra, così questo sentimento non era nulla separato dal perverso senso di
compiacimento per la sua condizione. Così sola al mondo e così profonda da
accogliere ogni singolo centimetro di quella solitudine, delle conseguenze che
si trascina come ingombranti gioielli. Non c'erano mica altri modi per sentirsi
vivi. Attraverso lo strazio, la disperazione e il dolore, poteva dimostrare a
se stessa che non era morta, che anche se è proprio un cadavere che si sentiva,
poteva ancora provare qualcosa e poco importa non fosse nulla di buono. Era
viva perchè era in grado di percepirla, distintamente, la punta di metallo
insinuarsi sotto la pelle, farsi largo separando il tessuto, liberando dalla
costrizione di un circolo chiuso e ripetitivo, quel fluido rosso e corposo,
ostinato girovago di un corpo che tiene vivo, senza averne voglia o coscienza.
Finchè senti qualcosa, esisti. La rabbia, la solitudine, il rancore, l'abbandono,
corrono via, tutto si allontana, seguendo la scia rossa che si disegna tutto
intorno, come lasciare una barchetta di carta lungo un rigagnolo, prima che si
imboni e scompaia sotto il peso del suo stesso essere, sopraffatto dalle leggi
della fisica, per un po' è possibile osservarla navigare, perseguire,
assecondare il tragitto e allontanarsi.
"Vai via da
me". Si sentiva sollevata ad ogni battito, ogni attimo. La testa sembrava
più leggera e il cuore sollevato, persino i tagli non facevano più male. Stava
bene mentre quello che l'aveva condannata per anni finalmente la lasciava in
pace.
C'era un buon
odore nell'aria, ricordava quello che sentiva da bambina quando prima di
tornare a lavoro la madre la teneva in braccio. Se ne stavano sul divano e lei incastrava
il naso nell'angolo che formano spalla e collo, sulla pelle nuda, un braccio
rannicchiato vicino al proprio petto e l'altro libero di abbracciare la nuca,
arrivare ai ciuffi di capelli per farli gironzolare tra le dita paffute e dai
movimenti ancora poco raffinati.
"E' bello
toccarti i capelli" ripeteva senza ben articolare con un filo di voce.
Provava quella
stessa pace, quello stesso senso di abbandono, di serenità piena, gioia, gli
occhi si lasciavano andare al buio, esattamente come allora.
Intanto una
chiazza rossa si dilatava sul pavimento e finchè non si fosse spontaneamente
esaurita la fonte, nessuno avrebbe potuto evitarlo.
Ora sarebbe stata
finalmente libera dalla sua aguzzina.
N.B. Questo è solo un racconto frutto di fantasia. Non è ne un'esperienza reale ne una celata richiesta d'aiuto. Stasera è girata così e quello che ne è venuto fuori è questo.
Niente di più.
Spero ve la passiate meglio di me, ma mi riprendo!
Isotta
tesoro... sempre bello leggerti.. ciumbia se sei brava!
RispondiEliminaTi ringrazio cara!
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