martedì 13 novembre 2012

La Vita è un' Aguzzina.


Il fumo saliva denso arrampicandosi all'aria stagnate, tesseva una ragnatela sinuosa per poi sparire nell'afa dell'ultimo piano. Il buio attorno, il bruciore intermittente, tenuto in vita dalle inspirazioni, lunghe e cadenzate di una bocca senza più parole.
Le tapparelle abbassate lasciavano sullo spazio tutto intorno le tinte del nero, traforato da puntini di luce che sfruttando lo spazio, non chiuso a dovere, rendevano la situazione ancora più irreale.
Se ne stava dietro uno di quei buchi, le ginocchia strette al petto e la schiena curva, il tramonto le colpiva l'occhio con cui era intenta ad osservare fuori. Assaporava ogni boccata di nicotina, trattenendo il respiro un attimo in più del dovuto, tanto da far lacrimare gli occhi e accelerare i battiti. I tetti sembravano più rossi del solito, mentre dalla stradina arrivavano le voci della gente. Un ragazzo parlava al telefono di cose che probabilmente non provava sul serio ma che sarebbe valse un appuntamento o, nel caso avesse giocato bene le sue carte, qualcosa di più, la visuale limitata tuttavia non le permetteva di scorgerne la figura, si limitò ad immaginare l’aspetto.
Due bambine facevano su e giù per il percorso consentitogli dai genitori, sui pattini a rotelle, cantavano a squarciagola una canzone famigliare fino allo sfinimento, parlava di fiori e pesci rossi. Dal balcone di fronte, spalancato, era possibile vedere la signora preparare la cena, si sentivano i rumori tipici delle cucine, le posate e i bicchieri sistemati sul tavolo, la teglia che entra nel forno, il frigo che si apre e verrà chiuso per l'ennesima volta, la si sente rispondere alla domande del quiz in tivù, spesso sbagliando le risposte, fa tenerezza e un po' di pena, invidia.
Quante ore sarà stata nella stessa posizione? A giudicare dalla sensazione di anestesia generale almeno un paio. L'unica parte che avvertiva del suo corpo era la testa, ne sentiva il peso, ma non ricadeva su niente. Non aveva più le gambe, le braccia, un tronco, spariti, ingoiati dal buio. Una volta aveva sentito dire che quella strana sensazione è una forma di ipnosi. Che ci si concentra così tanto su un'area specifica del corpo, tanto da dimenticare il resto, lasciarlo indietro, addirittura furono condotte delle operazioni senza anestesia grazie a questa tecnica, diceva il servizio. Come avrebbe voluto potesse funzionare altrettanto bene coi ricordi. Le succedeva anche da bambina, quando dopo aver finito i compiti prendeva la sediolina, le cuffie e si piazzava davanti al televisore, guardava i cartoni animati per ore, per ingannare il tempo e la mancanza, in attesa che tornassero i genitori dai rispettivi luoghi di lavoro. Quando finivano le trasmissioni, era come svegliarsi da una trance e non ricordava nulla, oltre a non avvertire le estremità.
Non ricordava se aveva mangiato o se avesse detto qualcosa o se si fosse spostata per fare pipì magari, niente. Sorrise serrando la mascella.
Aveva gli occhi gonfi e striati dal rosso intenso dei capillari sotto sforzo, le doleva immediatamente dietro i bulbi oculari, un dolore pungente e materiale di cui si compiacque. Finita la sigaretta, lasciò cadere quello che ne rimaneva accanto alla cenere, che nel consumarsi aveva prodotto. "Ecco il tuo posto" sentenziò con fare solenne per poi scoppiare a ridere forte. Una risata lunga, esagerata, che tuonava nella casa vuota, rimbalzando di parete in parete, prepotente, sfacciata, inopportuna, falsa, talmente falsa da portarsi dietro come un fedele amico a quattro zampe, un cappio per la gola, che annoda, affoga, agogna fino a farti tossire, forte, forte, il viso paonazzo e la saliva immobile a toglierti la salvezza di un respiro che in realtà si trasforma in un rigurgito. Il vomito amico. Di vecchia data.
Provava pena per se stessa, mucchio d'ossa abbandonato su un pavimento costoso imbrattato da mozziconi e rigurgiti di se, ma come un oggetto non può separarsi dalla propria ombra, così questo sentimento non era nulla separato dal perverso senso di compiacimento per la sua condizione. Così sola al mondo e così profonda da accogliere ogni singolo centimetro di quella solitudine, delle conseguenze che si trascina come ingombranti gioielli. Non c'erano mica altri modi per sentirsi vivi. Attraverso lo strazio, la disperazione e il dolore, poteva dimostrare a se stessa che non era morta, che anche se è proprio un cadavere che si sentiva, poteva ancora provare qualcosa e poco importa non fosse nulla di buono. Era viva perchè era in grado di percepirla, distintamente, la punta di metallo insinuarsi sotto la pelle, farsi largo separando il tessuto, liberando dalla costrizione di un circolo chiuso e ripetitivo, quel fluido rosso e corposo, ostinato girovago di un corpo che tiene vivo, senza averne voglia o coscienza. Finchè senti qualcosa, esisti. La rabbia, la solitudine, il rancore, l'abbandono, corrono via, tutto si allontana, seguendo la scia rossa che si disegna tutto intorno, come lasciare una barchetta di carta lungo un rigagnolo, prima che si imboni e scompaia sotto il peso del suo stesso essere, sopraffatto dalle leggi della fisica, per un po' è possibile osservarla navigare, perseguire, assecondare il tragitto e allontanarsi.
"Vai via da me". Si sentiva sollevata ad ogni battito, ogni attimo. La testa sembrava più leggera e il cuore sollevato, persino i tagli non facevano più male. Stava bene mentre quello che l'aveva condannata per anni finalmente la lasciava in pace.
C'era un buon odore nell'aria, ricordava quello che sentiva da bambina quando prima di tornare a lavoro la madre la teneva in braccio. Se ne stavano sul divano e lei incastrava il naso nell'angolo che formano spalla e collo, sulla pelle nuda, un braccio rannicchiato vicino al proprio petto e l'altro libero di abbracciare la nuca, arrivare ai ciuffi di capelli per farli gironzolare tra le dita paffute e dai movimenti ancora poco raffinati.
"E' bello toccarti i capelli" ripeteva senza ben articolare con un filo di voce.
Provava quella stessa pace, quello stesso senso di abbandono, di serenità piena, gioia, gli occhi si lasciavano andare al buio, esattamente come allora.
Intanto una chiazza rossa si dilatava sul pavimento e finchè non si fosse spontaneamente esaurita la fonte, nessuno avrebbe potuto evitarlo.
Ora sarebbe stata finalmente libera dalla sua aguzzina.

N.B. Questo è solo un racconto frutto di fantasia. Non è ne un'esperienza reale ne una celata richiesta d'aiuto. Stasera è girata così e quello che ne è venuto fuori è questo.
Niente di più.

Spero ve la passiate meglio di me, ma mi riprendo!

                                                                                     Isotta

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